GABRIELLA DORIO IN SQUADRA CON GIACOMO LEONE

Eccola col numero 226, sulla pista del Coliseum, in dirittura d’arrivo, superare la rumena Melinte e iscriversi nel libro che fa la storia.

In dirittura d’arrivo, alla squadra del presidente in fieri Giacomo Leone, si candida Gabriella Dorio: una metafora calzante, il suo “sì” al programma del candidato che vuole restituire l’atletica all’atletica.

Ci sono molti altri motivi per esserne più che contenti.

Nei giorni dei successi in pista di quella ragazzina di Veggiano, le cronache la indicavano come la campionessa “acqua e sapone”.

Gabriella non è mai cambiata.

Molti dicono “ha vinto perchè non c’erano le tedesche dell’est e le sovietiche”, riferendosi al suo tuffo nell’oro sulla pista olimpica californiana.

Obiezione accolta.

Ma è un’aggravante?

Ne siamo certi?

La storia della pista ha poi certificato che quelle campionesse venute dall’est facevano parte di programmi indicati come “doping di Stato”.

Dunque la Dorio vinse restando “acqua e sapone”, facendo leva sul motore avuto in dote dai genitori e sulla classe che l’aveva portata al vertice del mezzofondo nazionale italiano, indicata come erede naturale di Paola Pigni.

Quelli dell’84 – che videro il debutto di Carl Lewis – furono anche i Giochi dei messaggi emblematici “delle Gabriella”.

La svizzera Gabriela Andersen Schiess, per esempio, divenne l’emblema dell’ostinazione un meraviglioso simbolo da tramandare ai giovani, fatto di rispetto delle regole e di amore per lo sport.

Sette minuti di un lento zigzagare della maratoneta svizzera che rifiuta ogni sostegno e alla fine nel boato della gente, taglia il traguardo. Pochi si ricordano della vincitrice dell’oro, l’americana Benoit, che era arrivata crica mezz’ora prima di lei.

Tutti, anche le generazioni successive, hanno visto tramandato il coraggio di quella svizzera.

Poi venne l’oro della nostra Dorio. A coronamento di un amore, più che una carriera, per la Regina dello sport.

Cosa accomuna le due Gabrielle?

Il piacere dell’onestà. La scelta di battersi per giuste cause.

Gabriella nostra, quarta negli 800 in quell’occasione a cinque cerchi, prima del “tuffo” nell’oro, a chi le obiettava un “però”, rispondeva papale papale: chi è assente ha sempre torto.

“Non posso mica battere chi non c’è”.

Abbiamo fortemente voluto in squadra Gabriella, potrebbe dire chiunque faccia parte della proposta federale del candidato presidente Giacomo Leone e dei membri de l’atletica2024.it. E siamo molto felici che abbia accettato.

Anche questo è un segnale.

Quando vinse la sua prima campestre, Gabriella – che aveva 14 anni – non doveva partecipare. E mamma Flora non era così convinta che fosse bene che la sua bambina dovesse andare in giro per il mondo.

Una volta convinta, con intervento di nonna Erminia, arrivarono diciotto anni di maglia azzurra, tre olimpiadi, oltre all’oro un quarto e un sesto posto, 23 maglie di campionessa italiana, 16 primati nazionali stabiliti.

Il tutto senza che la nostra abbia mai tradito, e ribadiamo mai, lo spirito della prima gara.

Un atto d’amore. Tanto da indicare come la gioia maggiore mai provata, la prima vittoria su pista, quando non aveva ancora compiuto i 14 anni: la finale dei Giochi della Gioventù sui mille metri.

E’ un candore, una coerenza profonda che inorgoglisce, all’annuncio della sua candidatura.

Gabriella Dorio porterà con sè “testa, cuore e gambe”, gli insegnamenti fondamentali che ha avuto da papà Gino e mamma Flora, prima, e poi dal fratello Sante e da Ugo Ranzetti, i suoi allenatori in pista. Insegnamenti che giungono uguali dalla prima all’ultima sfida. Questa è l’atletica.

Dal primo successo a Castel Fusano (sotto gli occhi del presidente Roberto Vianello – fratello del più noto Raimondo – il primo ad accorgersi della classe di quello scricciolo non ancora quattordicenne), Gabriella è stata sempre la stessa.

La stessa che per 25 anni è stata capitana delle giovanili di atletica.

Fino al novembre 2021, quando il neo presidente Fidal Stefano Mei, dopo le Olimpiadi, senza alcuna comunicazione ufficiale, l’ha esclusa.

“La sola spiegazione che ebbi a riguardo – raccontò laconicamente Dorio in un’intervista al CorSera del Veneto – me l’ha data Antonio Andreozzi, direttore tecnico delle giovanili. Mi ha detto che il presidente aveva deciso di coinvolgere altri testimonial… E comunque io ero lì non come testimone del passato ma come persona che seguiva i ragazzi”.

Con la sua esperienza internazionale, Gabriella era felice – in quel ruolo – di poter offrire suggerimenti utili, un supporto psicologico, ai giovani alle loro prime uscite internazionali.

Tutto fu azzerato, dall’oggi al domani, senza un “grazie”.

“Le medaglie d’oro vinte alle Olimpiadi – ebbe poi a precisare Gabriella, in virtù della sua schiettezza – non le ha vinte Stefano Mei che da soli sei mesi era alla guida della Fidal. Quelle medaglie sono il risultato di un lavoro di anni, e questo lavoro andava riconosciuto… le medaglie non si costruiscono in pochi mesi, ci vogliono dieci anni”.

Se oggi Gabriella Dorio si è convinta a candidarsi, certamente lo ha fatto per vedere riconosciuto alle società – come il nuovo corso intende fare – il lavoro che ha portato a questa immagine vincente. Forse avrà sentito riecheggiare dentro le parole che furono spese per confortare mamma Flora e papà Gino. Che l’atletica, cioè, aveva bisogno di Gabriella: era cosa buona e giusta.

“Le cinque medaglie d’oro – sono parole di Gabriella Dorio – andavano capitalizzate dalla federazione per raccogliere denaro per riuscire a fare più attività, per aiutare le società , per superare il limite del volontariato perché i tecnici spesso non vengono pagati. Le medaglie dovevano essere l’occasione per aiutare le società a crescere e a far fare più attività. Nel calcio girano un sacco di soldi e noi non riusciamo a tirar fuori un po’ di euro per gratificare il lavoro dei tecnici».

Diego Costa

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